Regioni, assistenza sui territori; la lezione del Covid non è stata sufficiente. Le incognite del Pnrr

I medici di famiglia si lamentano di essere sovraccarichi di lavoro e di burocrazia, i cittadini di non trovare un pediatra di libera scelta, i territori di essere stati lasciati sguarniti ogni volta che il dottore del paese va in pensione. Eppure, già nella primavera 2020 si pensava di aver imparato la lezione di Covid-19: bisogna tornare alla medicina territoriale, vanno potenziati i servizi delle cure primarie.

A distanza di tre anni, il quadro tracciato nel Rapporto sui medici di medicina generale dall’Agenzia Nazionale per il Servizi sanitari regionali (AGENAS) non è dei più rassicuranti, né mostra uno sforzo concreto per rispondere ai bisogni accentuati da Covid-19 ma già ben presenti prima.

Nel 2021, infatti, in Italia erano in attività circa 40.250 medici di medicina generale, quasi 1.460 in meno rispetto all’anno precedente e 2.178 rispetto al 2019: oltre a quelli caduti sotto l’attacco del virus (circa uno al giorno nel mese di marzo 2020, quando affrontavano il virus ancora sconosciuto non solo disarmati, ma privi perfino della minima protezione data da una mascherina), ce ne sono tanti che, scoraggiati, hanno cambiato mestiere, lasciato la professione o deciso di andare in pensione. D’altra parte, anche tre quarti di quelli ancora in servizio nel 2021 avevano già oltre 27 anni di anzianità.

Difficile pensare che la situazione possa migliorare presto, considerando che entro il 2025 quasi 13.800 gireranno la boa dei 70 anni, mentre il numero di giovani in ingresso nella medicina generale è ancora insufficiente. L’aumento delle borse per la formazione dei medici di base, passate da 1.765 del 2019 a un totale di 3.675 del 2022, ancora non basta: se anche fosse coperto il 100% dei posti e tutti i candidati concludessero il percorso nei tempi previsti, entro il 2025 ne sarebbero entrati in servizio meno di 10.150, lasciando più di 3.600 posti scoperti su tutto il territorio nazionale.

Solo le Regioni più piccole se la caveranno: Val d’Aosta e Provincia autonoma di Trento con un bilancio attivo di qualche unità, il Molise con una carenza di soli 4 professionisti. La situazione peggiore si prevede invece nelle regioni Lazio e in Sicilia, che si troveranno a fronteggiare la mancanza di oltre 500 medici di famiglia ciascuna, seguite da Campania e Puglia (quasi 400 ciascuna), Toscana (circa 250) e Piemonte ed Emilia Romagna, sui 200. Per la medicina generale di Veneto e Lombardia si stima una carenza di circa 150 e 135 unità, per Abruzzo e Sardegna 127 e 116. Le altre Regioni, meno abitate, avranno di conseguenza bisogno di meno medici, sotto il centinaio.

Non bisogna dimenticare infatti come varia la popolazione. Ogni medico di famiglia nel 2021 aveva in media 1.237 adulti assistibili, un numero stabile rispetto al 2020, al di sotto del massimale di 1500 previsti, salvo eccezioni, dal contratto. Il rapporto tra medici e cittadini per 10.000 abitanti, a livello nazionale, è invece di 6,81, andando dal minimo di 5,47 della provincia autonoma di Bolzano al massimo di 8,34 nell’Umbria. Se in Alto Adige, alla difficoltà di attirare medici si somma il limite di dover parlare fluentemente tedesco, subito dopo, per carenza di medici, viene la Lombardia, con 5,8 MMG per 10.000 abitanti, al pari della Calabria.

Secondo i dati Eurostat, il valore italiano è molto inferiore a quello osservato in Portogallo e Irlanda, dove questo rapporto si avvicina rispettivamente a 30 e a 20, ma anche a quello di Francia e Germania, in cui anche il numero assoluto di medici di famiglia è molto superiore al nostro, con rispettivamente 94.000 e 85.000 unità.

Uno sguardo infine ai sevizi di continuità assistenziale attivi la notte e nei weekend: nel 2021 in Italia c’erano meno di 3.000 punti di guardia medica, con 10.344 medici titolari, pari a 18 medici ogni 100.000 abitanti. Anche qui, grandi differenze regionali: dai 3 della Valle d’Aosta ai 47 della Basilicata, dai 5 dell’Emilia Romagna ai 39 della Calabria, che riflettono evidentemente diversi modelli organizzativi per l’assistenza ai cittadini. Anche la legge prevede che questi siano differenziati in relazione alle esigenze dei territori. Basta che però, in un modo o nell’altro, i cittadini si sentano assistiti e in caso di necessità sappiano a chi rivolgersi senza dover bussare alle porte del pronto soccorso per problemi che dovrebbero e potrebbero essere risolti a un diverso livello di assistenza.

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